Cecità clandestina

da | Lug 4, 2019 | BLOG, CONVEGNO 12 OTTOBRE 2019

di Simona Moltoni
Psicologa psicoterapeuta 

tratto dal libro Cecità clandestina di Paola Emilia Cicerone

C’è una premessa fondamentale che guida il mio modo di lavorare: potrei riassumerla con le parole di Leonard Cohen “In ogni cosa c’è una crepa, ed è da lì che entra la luce”. E’ in questo modo che tento sempre di guardare ai percorsi e alle sfide umane. Dopo diversi mesi di lavoro terapeutico, Paola un giorno arrivò in seduta con grandi occhialoni neri, visibilmente spaventata e in preda all’ansia. Aveva tutti i sintomi di quella che poi sarebbe diventata, dopo accurati accertamenti medici, la diagnosi di “cecità funzionale”. Ebbi immediatamente la sensazione di un “viaggio”, se possibile ancora più profondo, che Paola come sua terapeuta mi invitava a fare insieme con lei. Nei miei quasi vent’anni di pratica clinica non avevo mai avuto clienti con la diagnosi di blefarospasmo, ma due premesse fondamentali mi guidavano: una profonda fiducia che da quella specifica storia e da quella specifica “crepa” poteva entrare la “luce” della consapevolezza, e la premessa “faro” che la guarigione emozionale, laddove possibile, poteva avvenire in relazione e nel momento presente.

Il mio lavoro come terapeuta a orientamento mindfulness consiste nell’integrare le mie competenze e le mie conoscenze con le pratiche di consapevolezza e soprattutto con l’ascolto profondo… Ma in cosa consiste l’ascolto profondo? E’ la pratica del respiro consapevole, affinché le qualità dell’equanimità e della compassione del terapeuta possano sostenere il setting terapeutico. Vuol dire ascoltare, per lo più senza dare consigli o esprimere giudizi. Non si tratta per il terapeuta di fare qualcosa, ma di portare all’interno dello spazio terapeutico una cornice, una modalità e una postura da ”essere a essere”, in cui le esperienze del cliente nel qui e ora possano essere sentite in modo diretto e poi accettate e riconosciute con gentilezza e non giudizio. Jack Kornfield ci ricorda che l’accettazione è uno dei passi fondamentali della trasformazione e “ci permette di aprirci alle cose cosi come sono in un dato momento”. E’ un lavoro lungo, a volte un lavoro atroce. L’accettazione non è passività ma un passo coraggioso nel processo della trasformazione. Sì, perché ci vuole coraggio a tollerare i propri stati mentali quando sono difficili o dolorosi. L’accettazione diventa allora un moto di disponibilità del cuore a includere e a fare spazio a qualunque cosa la vita metta davanti a noi.

Un giorno Paola racconta in seduta che i suoi occhi “non accettano regole e si chiudono quando vogliono loro. Per strada, di fronte alla televisione o al computer”, per poi riaprirsi miracolosamente in ambiti domestici o nei momenti in cui si prende cura di se stessa. Ed ecco che, in quel momento, il mio lavoro consisteva nell’essere completamente presente a me stessa e a lei, resistendo alla tentazione, davvero sfidante per un terapeuta, dell’interpretazione.  Avendo completamente fiducia che il processo e l’ascolto compassionevole dello spazio terapeutico potessero perturbare la possibilità della guarigione, ma soprattutto acquietare la tempesta di emozioni che la cecità sollevava in Paola. Entrambe stavamo facendo un viaggio nell’ignoto, però avevo ben chiaro che per “guarigione” non intendevo la scomparsa ­­del blefarospasmo, ma la possibilità per Paola di “stare” con ciò che c’era davanti a lei mantenendosi radicata nella sua Presenza, nelle sue risorse, senza lasciarsi sopraffare dalla paura, l’emozione che più di tutte ha il potere di “stringere” la nostra vita quando incombe. E’ quello che capita a tutti noi quando l’inaspettato, un inaspettato sgradevole, arriva senza preavviso, sconvolgendo le nostre abitudini e la nostra visione di come avrebbe dovuto essere. Ma quello che succede a Paola, durante il percorso che la malattia la costringe a fare, è incontrare oltre all’inaspettato anche la scoperta. Naturalmente il primo incontro è con le emozioni forti della paura. La nostra paura atavica di perdere il controllo, e la vergogna della nostra vulnerabilità. E’ una vera e propria tempesta. Durante quegli incontri, quello che facciamo insieme spesso è un tornare all’ancora del respiro, al corpo e al momento presente.

Lavoriamo molto sul radicamento e sul ri-connettersi al suo corpo come luogo sicuro. Attraverso il lavoro di focusing e di ascolto della sensazione sentita che arriva dal suo corpo, Paola sperimenta davvero che al di sotto della sua mente c’e’ una Presenza. Una Presenza stabile, solida, silenziosa e piena di dignità profonda. E da quello spazio, incontro dopo incontro, emergono risorse, luoghi e volti sicuri della sua infanzia, e una spaziosità che può includere ogni cosa.  

Impara ad avere fiducia, a sentire forte il vento della tempesta di emozioni che infuriano ma anche, attraverso delle visualizzazioni, che il suo “albero” nonostante il vento delle emozioni impermalenti, è profondamente stabile e radicato a terra.

Impara a “scendere” nel suo corpo, liberandosi dall’identificazione con la “mente che mente” e che gli orientali descrivono come una scimmia ubriaca che vaga di ramo in ramo, soprattutto quando è in balia delle proprie emozioni e ruminazioni. Thich Nhat Hanh ci ricorda che le emozioni sono solo emozioni: attraversano il “cuore”, si soffermano per un po’ e poi ci lasciano. Come disse Victor Frankl, psichiatra e scrittore che tornò dall’esperienza dei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale, “tra stimolo e risposta c’è uno spazio. In questo spazio si trova il nostro potere di scegliere la risposta. In questa risposta si trovano la nostra crescita e la nostra evoluzione”.  Paola impara a fare spazio, a ritornare alla presenza mentale fidandosi della bussola del suo corpo, e piano piano le emozioni si dissolvono.

Ed ecco che man mano che le emozioni si acquietano, rimangono solo la vita e le sue sfide da affrontare cosi come sono.  Decisioni, strategie e scelte da fare. Controllando ciò che è controllabile, accettando e lasciando andare ciò che non lo è, ma soprattutto, piano piano, lasciando emergere altre parti di se’. Come scrive Etty Hillesum, “ci sono sempre nuovi terreni da coltivare dentro di te”. E cosi succede nel viaggio che Paola percorre attraverso la sua “cecità”. Se da una parte il sintomo diventa incalzante e menomante quando Paola è chiamata a stare nel mondo, davanti a una lettura (per la prima volta in vita sua passa quasi sei mesi senza aprire un libro) o davanti al computer, ecco che i suoi occhi, come racconta lei possono “riaprirsi quasi miracolosamente” quando si ritrova a prendersi cura di sé, concedendosi momenti di pausa e di relax, mangiando o preparandosi le verdure.  Paola scopre la tenerezza sua e altrui per la sua stessa vulnerabilità, e soprattutto che è possibile mostrare al mondo il suo lato più umano.

Non mi sorprende l’umiltà e il coraggio con il quale Paola prende in mano il suo percorso, la sua nuova vita e tutto il processo di guarigione che la riporterà alla normalità. Non lo subisce ma ne diventa protagonista. Passa attraverso il buio della cecità funzionale e della paura. Quell’angoscia che pervade ognuno di noi, quando sentiamo di perdere il controllo della nostra vita. Chiede aiuto, esercizio non facile per lei, e genera una cintura di sicurezza intorno a se’ (la medicina tradizionale, il percorso dell’agopuntura, il piccolo supporto farmacologico momentaneo, le relazioni amicali). Stabilisce con i suoi curanti un patto di alleanza. Co-costruisce e diventa protagonista della sua stessa cura e guarigione. Si dice che la consapevolezza non rifiuti l’esperienza, anzi ne faccia il maestro.  Paola compie un viaggio d’interconnessione tra corpo, emozioni, mente e consapevolezza. Impara a fare spazio e ad allearsi, anziché combattere il disagio della cecità, lasciandosi guidare da quel maestro all’inizio così sgradevole ma che le consentirà di fare un viaggio dentro di se’ e un percorso di autoconoscenza. Attraverso la consapevolezza e la fiducia impara a onorare ogni ospite che sorge nella sua coscienza. La rabbia, la paura, la vulnerabilità, il limite, la vergogna. Pian piano impara a opporre sempre meno resistenza, ed ecco che osserva che il suo sgradevole maestro mette limiti e confini per lei: continua a lavorare ma è costretta a rallentare. Il neurologo, infatti, ha chiaramente prescritto “niente stress o sforzi eccessivi”, e grazie alla complicità delle sue colleghe impara a gestire e a calibrare la pressione lavorativa. In fondo il collega medico le propone una pratica di auto compassione, prescrivendole la possibilità di ospitare il limite e la sua vulnerabilità. E intanto dalla porta della malattia entra anche la delicatezza e l’amore dei suoi affetti fatti di solidarietà, vicinanza e attenzioni. Una “cordata” di amiche pronte a esserle vicine con tutta la forza e la generosità di cui il femminile è capace. Amiche disposte a cambiare abitudini e ad aprirsi ad altri sensi pur di stare in connessione con Paola: “Amiche generose, onnipresenti, disposte a cambiare programmi per coinvolgermi: non siamo mai andate tanto poco al cinema e non abbiamo mai seguito tanti concerti come in questo inverno buio”. Ma non c’e’ notte che non conosca il giorno, e lentamente Paola scopre come nel quadro di Giovanni Frangi che la notte è sempre attraversata dalla luce. Attraversando la ”notte”, come spesso succede, scopre parti di se’ dimenticate e censurate.

Anche una parte de i nostri incontri sono guidati dal maestro sgradevole di Paola. Durante alcune sedute, lavorando con lo strumento gestaltico delle sedie vuote, contattiamo e diamo voce ai suoi vari sé.  Quelli con i quali Paola si è più identificata all’interno della sua storia, i cosiddetti sé primari (la forza, l’autonomia, il controllo, il perfezionismo e la parte intellettuale) sia i se’ rinnegati, quelli più censurati o trascurati all’interno della sua storia (la parte femminile, la bambina interiore, la vulnerabilità sempre nascosta dietro l’immagine della donna forte e competente). Ma è soprattutto la vulnerabilità che comincia ad avere un “diritto di esistere” nella sua vita. Ad esempio la sua curiosità intellettuale per un certo tipo di film gialli cede il passo all’auto protezione, e al bisogno che emerge di stare in contatto con ciò che è più “lieto”. Sempre la vulnerabilità le concede di appoggiarsi al braccio di qualcuno quando deve attraversare la strada. Mi risuonano le parole di Albert Einstein: in mezzo a qualunque difficoltà si trova un’opportunità. Paola rende la sua esperienza un vero viaggio di scoperta e una vera opportunità.

Confessa durante incontri di lavoro la sua vulnerabilità, permettendo inaspettatamente all’altro di fare la stessa cosa. Viene a patti con il suo “perfezionismo” scoprendo piano piano una compassione per se stessa prima sconosciuta. Impara, con tutto il lavoro interiore che questo comporta, la pazienza, l’arte cioè di essere aperti a ogni momento accettandolo e avendo fiducia, come la farfalla nella crisalide, che tutto si trasformi a suo tempo. Attiva risorse intorno a se stessa. Quando poi sento che la tempesta è un po’ più all’orizzonte, l’apertura e la curiosità di Paola mi consentono di incoraggiarla a intraprendere un percorso di pratica meditativa. Da un punto di vista intellettuale è un mondo che lei già conosce attraverso i libri e gli insegnanti che qualche volta incontra come autori. Ma l’invito che lei accetta è quello di fare, come direbbero i maestri, un’esperienza diretta. Ritagliarsi cioè un momento in cui stare con se stessa, con il suo respiro. Concedendosi la possibilità di osservare la sua mente. E’ infatti sempre più consapevole che i nostri pensieri e le nostre costruzioni mentali dirigono costantemente la nostra vita. Noi tutti siamo costantemente preda dei nostri pensieri ripetitivi. Le spiego che non si tratta di cambiare i nostri pensieri, ma solo di osservarli con un’attenzione gentile e non giudicante. Un mio caro amico maestro di meditazione, Nanni De Ambrogio  scherzando chiama questa pratica “la meditazione della tregua”.  Paola non è ancora tornata alla piena normalità,  ma comincia a sperimentare sempre più la “tregua” dai suoi stessi pensieri e dalle sue paure.  Descrive bene l’effetto di questa tregua sperimentata con delle amiche durante una fiera prenatalizia: “Scopro che senza vedere mi concentro su altri sensi…il profumo del pane o dei saponi, lo scalpiccio irregolare dei visitatori, la morbidezza di una stoffa. E gli sprazzi di colore che appaiono di tanto in tanto sono più vivi che mai.”.

Scrive Frida Kahlo che “l’arte più potente della vita è fare del dolore un talismano che cura, una farfalla che rinasce fiorita in una festa di colori”. Ma per riuscirci a volte dobbiamo fare l’opposto di quello che ci chiede la cultura moderna, cioè “tirare dritti” e proseguire con la nostra vita. “Tirare dritti” ha una sua grande utilità, ma a volte dimentichiamo l’importanza di onorare le nostre lacrime e di onorare ogni parte del nostro sentire. Paola piange poco, pochissimo, ma ora si da’ la possibilità di sentire anche tutti gli “orfani di coscienza” della sua storia, compiendo un viaggio nella vulnerabilità, nell’autenticità, nelle sue risorse e nella compassione per se stessa.

Lentamente la vista migliora sempre più e durante una seduta di marzo Paola mi racconta della sua commozione di fronte ai colori vivissimi di un giacinto fiorito sul suo davanzale e all’ascolto toccante della musica di Mozart: mentre parla sento la sua Presenza forte e viva e sento che questo viaggio al centro del suo essere, che la malattia l’ha costretta a fare, ha risvegliato tutti i suoi sensi. “Mi fermo continuamente per ammirare una foglia, un gioco di luce sul muro. Loro si meravigliano dei miei entusiasmi, io mi stupisco che non si rendano conto di tanta bellezza”

A proposito di bellezza, mi vengono in mente le parole ascoltate tempo fa durante  una conferenza. Il relatore parlava di una concezione particolare della bellezza, come luogo attraversato dalla ferita. La bellezza che sa ospitare la ferita. Sì, Paola si è lasciata attraversare dalla ferita dell’invalidità temporanea, l’ha utilizzata e ne ha fatto un viaggio di scoperta accogliendo dentro di se’ nuovi orizzonti, nuovi punti di vista, lasciando emergere un nuovo modo più maestoso  di guardare se stessa e il mondo. Scrive Marcel Proust: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Sono molto consapevole che avere il privilegio di poter assistere e accompagnare ogni volta questo processo, come terapeuta, è anche per me una profonda ricchezza. Ogni volta è una “festa”,  e uno straordinario regalo, lo scorgere un nuovo orizzonte e un nuovo sguardo che può generarsi e nascere solo nell’incontro con l’altro. Sentirlo mi commuove.