Gli ostacoli all’intenzione compassionevole

di Paola Mamone e Anna Rossi
Per far sì che la nostra intenzione di coltivare la compassione per noi stessi e per gli altri possa realizzarsi davvero, è utile anche prendere consapevolezza di quali possano essere a volte i fattori che la ostacolano.
Come spesso accade nella pratica di mindfulness, sono proprio le difficoltà che incontriamo ad essere i nostri migliori maestri.
Ecco alcuni degli ostacoli che possiamo incontrare.
La paura del contagio.
Questa è la convinzione, più o meno conscia, che se ci avviciniamo al dolore dell’altro o al nostro, esso ci sovrasterà e soffriremo.
La pratica di consapevolezza ci aiuta a sviluppare la capacità di sapere che possiamo sentire il dolore dell’altro, ma in un modo tanto più sano quanto più riusciremo a non esserne travolti, a non essere catturati dalle caratteristiche di paralisi e impotenza che in genere sono associate alla percezione del dolore fisico o psicologico.
Riuscire a stare con quello che c’è mantenendo una dimensione di fiducia nasce dal fatto di sperimentare direttamente, attraverso la pratica, che tutto è in evoluzione, non c’è niente che persiste sempre uguale e tutti gli altri elementi presenti in noi e intorno a noi possono dare al dolore una dimensione diversa, meno pervasiva.
L’idea del dolore.
A volte quello che accade è che ci fa più paura l’idea che abbiamo del dolore, come qualcosa di enorme, sovrastante, senza fine. Ma anche questo non è che un pensiero: con la consapevolezza impariamo invece a stare con l’esperienza del dolore di questo momento presente, momento per momento. E, se riusciamo a stare con questa esperienza, ciò che si rivela, a volte in modo sorprendente, è che proprio ora, se siamo davvero presenti, non c’è spazio per la paura: la paura – semplicemente – non c’è perché è una proiezione nel futuro.
La paura è legata a un’idea che abbiamo del dolore, e un’idea è ben diversa da un’ ‘esperienza.
L’attaccamento alle opinioni.
Le nostre opinioni, su noi stessi e sull’altro, quando non siamo disposti a lasciarle andare, possono formare una sorta di schermo che non ci consente il contatto e l’esperienza della sofferenza nostra e dell’altro.
In questi momenti potremmo porci una semplice domanda: “Sei sicuro?”: una domanda che può diventare un allenamento ad aprirci all’effettiva realtà di ciò che stiamo vivendo e invitarci a guardare noi stessi e l’altro con la mente del principiante.
L’autocritica.
A volte – e questo è vero in particolare per coloro che aspirano a prendersi cura della guarigione e della salute degli altri – siamo i più severi giudici di noi stessi.
Trattiamo noi stessi in modi con cui non ci sogneremmo mai di trattare gli altri.
Questo atteggiamento può essere un grande ostacolo ad accoglierci, proprio in quei momenti in cui avremmo più bisogno di conforto, di sostegno, di perdono.
La pratica della self compassion ci aiuta a nutrire l’apertura del cuore, prima di tutto verso noi stessi, riconoscendo che alla base di ogni giudizio ipercritico su noi stessi c’è solo il desiderio di essere amati e di non essere isolati.
I tre complessi.
Nelle tradizioni meditative si parla di tre complessi: di superiorità, di inferiorità, di uguaglianza. La mente del confronto e del paragone ci separa dalla realtà e dall’esperienza, ci toglie energia, ci restringe. Coltivare l’apertura, la compassione verso noi stessi e gli stati mentali salutari che sono sempre a nostra disposizione ci mette in grado di contattare la dimensione più profonda del nostro essere come siamo: degli esseri umani che condividono gioie e difficoltà come tutti.
La compassion fatigue.
Si parla di compassion fatigue quando ci sentiamo esauriti, privi di energia e non siamo più in grado di fare fronte allo stress dello stare in contatto con il dolore degli altri. Sembra che la nostra capacità di compassione sia svuotata. È qualcosa che può accadere a chi presta aiuto in contesti e situazioni particolarmente dure e stressanti.
Secondo il maestro zen Thich Nhat Hanh, proprio per questo è importante imparare a nutrire corpo e mente, darsi i giusti spazi di riposo, essere consapevoli dei propri limiti e accoglierli, anche sapendo dire dei “no”, e permettersi di restare in contatto con gli elementi salutari che sono a nostra disposizione, compresa la connessione profonda con altre persone che condividano la nostra stessa aspirazione ad essere su un cammino di consapevolezza, gentilezza, accoglienza.

Interessere Mindfulness in Azione partecipa e sostiene questa iniziativa di formazione promossa da CMF – Counseling Mediazione Familiare. A giugno un workshop di due giorni sulla Mindfulness in Rel-Azione