I cinque inviti: spunti di riflessione per medici e operatori sanitari

da | Gen 26, 2021 | BLOG

I cinque inviti: spunti di riflessione per medici e operatori sanitari

Mindfulness per la cura e l’aiuto

Ci sono dei libri che, quando li leggi, ti sembra che l’autore ti stia accanto, sia proprio lì, insieme a te, e ti accompagni ad andare avanti a leggere un po’ come tenendoti per mano, anche quando ti fa attraversare dei paesaggi un po’ scomodi per te.

I cinque inviti, di Frank Ostasesky, è uno di quei libri per me. Ho avuto molta resistenza a leggerlo, per via di quel suo sottotitolo: “Come la morte può insegnarci a vivere pienamente”, che mi intimoriva un po’. A un certo punto, però, ho smesso di scappare e l’ho preso in mano, e da lì in poi è stata tutta una scoperta, per la semplicità e profondità con cui vengono trattati temi estremamente delicati.

Ci sono bellissimi spunti nel libro per tutti noi, e gli “inviti” che Frank Ostasesky trae dalla sua esperienza e ci dona sono davvero potenti, ma ora in particolare vorrei invitarvi a leggere con me alcuni brevi brani che, secondo me, sono degli spunti di riflessione importanti per chi svolge una professione di cura e aiuto.

Spero che vorrete leggerli proprio in questo modo, appunto come spunti di riflessione da prendere senza giudizio e con apertura, sentendovi tenuti per mano.

Noi non siamo i nostri ruoli

“RamDass dice: «Non essere un ruolo, sii un’anima».

Noi non siamo i nostri ruoli, non siamo ciò che ci condiziona in un certo momento. Possiamo avere il cancro o essere bipolari, ma non siamo la nostra malattia. Possiamo essere nati nella ricchezza o nella povertà, ma non siamo né ricchi né poveri. Possiamo essere felici o tristi, giovani o vecchi, nella condizione di chi aiuta o in quella di chi è disperato, ma non siamo nessuna di queste cose.

Siamo innanzitutto degli esseri umani, con tutta la complessità, la fragilità e le meraviglie della nostra condizione. Quando guardiamo il mondo attraverso le lenti del nostro ruolo, restringiamo la nostra prospettiva. Non vediamo le cose e le persone così come sono, ma proiettiamo la nostra psicologia su di loro. E questo, frequentemente, ci porta a interpretare un’esperienza in un certo modo, facendoci perdere il vero significato che sta cercando di emergere. (…)

Sto parlando del modo in cui cerchiamo di separarci dalle sofferenze altrui. Talvolta lo facciamo con la nostra pietà, con la nostra paura, con il nostro calore professionale e perfino con le nostre azioni caritatevoli. Ma tutto ciò altera la maniera in cui prendiamo le decisioni. “

E ancora:

La motivazione nascosta della cura

“L’attività di assistenza agli altri può essere motivata sia da interessi egoistici sia da interessi altruistici. Lo psicologo sociale Daniel Batson identificò due distinte emozioni che ci spingono ad aiutare gli altri. Chiamò la prima preoccupazione empatica, che considerava altruistica in quanto si focalizza sugli altri. In effetti, vedendo soffrire qualcuno, emergono in noi la tenerezza e il desiderio di prenderci cura di lui.

Chiamò la seconda disagio personale, sostenendo che può essere considerata una motivazione egoistica, poiché è centrata sui nostri bisogni. In tal caso, la motivazione ad aiutare viene dal desiderio di una ricompensa personale, perché vogliamo aumentare il senso di autostima o perché cerchiamo di evitare un senso di colpa, l’autocritica o altri sentimenti spiacevoli. Si tratta dell’opposto dell’empatia, dato che, invece di favorire la connessione, può portare al desiderio di proteggerci, di ritirarci, o di fare ancora di più, indipendentemente dal fatto che gli interventi siano voluti dal paziente o abbiano un reale valore.

Non è raro che i medici vogliano respingere i loro sentimenti di paura, di inutilità o di impotenza prescrivendo terapie, droghe o altri trattamenti che non sono necessari, efficaci o desiderati. “

Ora, vi voglio dire, se non vi fosse noto, che Frank Ostasesky qualche anno fa ebbe un attacco di cuore e dovette essere operato; in questo libro parla anche della sua vicenda personale di paziente, ecco qui:

Il dolore di chi cura

“Gli infermieri e i dottori, che sono perlopiù persone generose, diventano di frequente estranei al loro stesso dolore. Pressati spietatamente da aspettative non realistiche delle strutture in cui lavorano, istruiti ad adottare strategie di adattamento per ignorare gli aspetti più penosi del proprio mestiere, perdono il contatto con il proprio cuore compassionevole. Spesso, affrontano le loro angosce e la loro alienazione con il rifiuto anziché con l’amore. Quando sono oberati di lavoro (…), si rinchiudono in se stessi. Addestrati in un certo modo, vedono soltanto i sintomi e non la persona che hanno di fronte. Tutto ciò che offrono è la loro competenza. (…)

Tutto ciò mi fu evidente quando ero in ospedale per il mio attacco di cuore e per l’operazione. Medici, infermieri e assistenti venivano da me e spesso erano così occupati nei loro compiti che era chiaro che non mi vedevano neppure. Venivo continuamente toccato, ma raramente quel contatto mi aiutava. Perlopiù ero ‘monitorato’. Mi duole dire che il personale sanitario aveva spesso un rapporto più stretto con le macchine e con gli strumenti che con me. Lo staff cercava di gestire la propria ansia con protocolli professionali ben strutturati e con strategie di cura che miravano a creare un’intercapedine tra me e loro, a tenere la mia sofferenza a distanza di sicurezza. Raramente questo funzionava: la loro ansia passava semplicemente a me.

Nessuno mi domandava veramente come mi sentissi: mi chiedevano solo di definire il mio dolore in una scala da uno a dieci. Ero andato di corpo? Facevo gli esercizi di respirazione? Ero un insieme di dati da registrare.

A un certo punto, in ospedale, persi il mio equilibrio: non riuscivo più a concentrarmi. Venivo travolto dalla paura, dal dolore e dal senso di dipendenza. Mi identificavo con l’ansia e con il mio mondo sempre più ristretto. Io stesso mi sentivo sempre più piccolo.

Il personale degli ospedali sente che deve aggiustare qualcosa. Lavora in ambienti pieni di aspettative, C’è un protocollo per ogni cosa e un piano da seguire per svolgere al meglio un determinato compito. In certi casi il ricovero è necessario e utile: io stesso non sarei vivo oggi se non ci fossero state quelle brillanti procedure mediche. Però, l’enfasi è completamente posta sul futuro. (…)

Gradualmente, persi contatto con me stesso. Fui travolto dall’idea che bisognava riparare qualcosa e mi unii alla mentalità predominante secondo cui si usano solo criteri esterni per valutare lo stato interiore. Incollato al mio ruolo di paziente, non ero nient’altro che un problema che andava risolto.

E infine:

Risolvere il problema o espandere il cuore?

“Lentamente, sentii riattivarsi la mia capacità di essere nel presente. Tornai in camera, entrai in bagno, chiusi la porta e mi misi a piangere. Era la prima volta, dopo l’operazione, che riuscivo a piangere e lasciai scorrere le lacrime: lasciai che il mio corpo si scuotesse e si liberasse. Alla fine, riuscii a stare con ciò che era spiacevole, perfino deprimente. Mi sentivo sollevato perché, mentre prima io e tutti intorno a me avevano cercato di negare le mie difficoltà, ora potevo accoglierle. Potevo sentire l’impotenza, la paura e il dolore, e potevo accettare domande come: «Che cosa significherà questo per il resto della mia vita?», «Valgo ancora qualcosa?» e: «Che cosa sarò capace di fare dopo?», tutti interrogativi originati dal trauma fisico ed emotivo provocato dall’attacco di cuore.

Un’infermiera entrò nella stanza. «Va tutto bene?» domandò parlando ad alta voce sulla porta del bagno. «Sta piangendo? Si sente bene? Lei sa che va tutto bene. Noi siamo tutti qui. Siamo qui per sostenerla.».

Dissi: «Per favore, mi lasci solo».

Ma lei non voleva farlo. Attaccata al suo ruolo di infermiera, stava svolgendo il suo compito. «Lei sa che le cose vanno bene. Tutto si risolverà. Domani starà meglio. Ritorni qui con noi, le chiamo uno psicologo».

«No» dissi con maggiore fermezza. «Mi lasci solo. Mi lasci così. Ho cercato per giorni di aver accesso ai miei sentimenti, e finalmente ci sono. Mi lasci con me stesso».

E lei mi lasciò. Mi lasciò essere.

Sentivo che potevo entrare in contatto con la mia sofferenza, che la mia innata compassione sarebbe emersa come risposta d’amore. E fu così.

Troppo spesso, chi cura tende ad amplificare la paura del paziente o a esacerbare la sua condizione di confusione focalizzandosi esclusivamente sulla soluzione del problema. Così facendo, può aggravare la crisi. Ben presto, come successe a me, il paziente perde il contatto con le sue risorse innate.

Nel caos della malattia, la presenza di una persona calma può fare una gran differenza. Curando un malato, noi usiamo la forza delle braccia e della schiena per spostare il paziente dal letto al bagno; gli prestiamo il nostro corpo. Ma possiamo anche prestargli la concentrazione della nostra mente e il coraggio del nostro cuore. Possiamo essere dei sostegni di stabilità e di fiducia. Possiamo espandere il cuore in modo da ispirare l’individuo che lotta a fare lo stesso. Allora diventiamo un rifugio compassionevole. La nostra presenza ristabilisce la fiducia nella capacità del paziente di guarire.

Non guarisco perché i miei problemi si stanno risolvendo. Guarisco riconnettendomi con ciò che mi pare perduto nella paura e nella disperazione. Guarisco ricollegandomi alla mia innata capacità di guarire. Questa si esprime sotto forma di accettazione amorevole di me stesso, la quale a sua volta produce un’apertura che si espande e si rafforza grazie alla compagnia dinamica della compassione. Tutto ciò alimenta il coraggio, che ci permette di andare avanti e di imparare dalla sofferenza. Quando trasferiamo questa intrinseca interezza agli altri, possiamo diventare un portale aperto su più ampie possibilità. Nel nostro ruolo di persone che curano, di amici, il nostro lavoro è essere dei portali, non dei risolutori di problemi. “

Grazie per aver letto sin qui, spero che queste parole abbiano toccato in voi, come è successo a me, dei tasti sensibili che avevano bisogno di essere ascoltati.

Ecco: solo ancora due parole sul tema, dalla mia e nostra esperienza con gli operatori della cura e dell’aiuto con Interessere Mindfulness in Azione.

Io credo che possiamo imparare a coltivare quello sguardo accogliente di cui parla Ostasesky, e a non chiuderci alla sofferenza nostra o dell’altro, senza però nemmeno esaurirci nello sforzo di “aggiustare” noi e l’altro. Ho sentito, a volte, che per me poteva essere così: e questo, nella mia esperienza, ha cambiato tutto.

La mindfulness afferma che è possibile ampliare il nostro sguardo, accoglierci di più, come esseri umani appunto, sviluppare quegli stati mentali che sono il fondamento della salute e lasciarci sostenere da essi. E la comprensione più bella e potente è che questo farà bene anche a chi desideriamo aiutare.

Abbiamo provato ad offrire tutto questo nel nostro percorso MHC Mindfulness for Help and Care, dedicato a tutti coloro che prestano cura e aiuto agli altri. È un percorso per tutti, anche per chi non ha mai praticato la mindfulness o la meditazione.  Un percorso che può essere gestito secondo i propri tempi e richiede soltanto il desiderio di esplorare la pratica della consapevolezza e l’impegno-  fecondo in ogni momento – di esporsi a comprensioni ed esperienze che possono darci una chiave nuova, più salutare e ampia di avvicinarci alla nostra realtà, includendo la cura di noi stessi e dell’altro in un insieme integro e sano per tutti, qualunque sia la sfida che ci troviamo ad affrontare.

 Anna Rossi

https://interessere.info/percorso-mhc-mindfulness-for-help-and-care-online-autogestito/

Interessere Mindfulness in Azione partecipa e sostiene questa iniziativa di formazione promossa da CMF – Counseling Mediazione Familiare. A giugno un workshop di due giorni sulla Mindfulness in Rel-Azione