Le credenze che ostacolano la compassione interiore

da | Ago 26, 2021 | NOVITA'

 

Sviluppare uno sguardo compassionevole e benevolente verso il giudice critico interiore è un processo complesso che affronta una serie di ostacoli: uno dei principali è la paura di non poter sopravvivere (o migliorare)  in assenza di questa voce ipercritica e giudicante.

 

Negli anni quello che Cristin Neff chiama “worthless self” – in nostro “sé svalutato”- ha imparato a combattere per la sopravvivenza quando si sente minacciato, siamo profondamente identificati con questa immagine svalutata di noi.

Per questo è così difficile, quando apriamo il cuore alla compassione per noi stessi, non incontrare una serie di resistenze che si manifestano attraverso le più svariate convinzioni e confusioni.

 

Una prima confusione riguarda la differenza tra critica costruttiva e autocritica severa: la prima infatti mira a comportamenti specifici e non coinvolge giudizi denigratori ed umilianti nei propri confronti. La riconosciamo perché è caratterizzata da un tono accogliente e affettuoso.

 

Un secondo piano che può dare confusione è il timore che la compassione interiore indebolisca la motivazione al miglioramento; anche questa paura nasce dal non avere bene compreso che l’autocompassione è un potente sistema motivazionale che fornisce il senso di sicurezza e la fiducia in se stessi necessari a riconoscere e accettare i propri errori, per potere imparare dall’esperienza e continuare a sperimentarsi, invece di ritirarsi nella paralisi prodotta dalla colpa o dalla vergogna.

 

A volte affiora la paura che la compassione per se stessi sia una forma di autoindulgenza, dimenticando che lautocompassione ha in sé quella componente di fierezza che ci permette di evitare i piaceri a breve termine a costo di un danno a lungo termine.  La compassione è saggia e orientata verso la salute, sa quando è necessario posticipare la gratificazione.

 

Un’altra paura comune è legata al concettualizzare la self compassion come un atteggiamento passivizzante che ci impedisce di prendere posizione con decisione contro ciò che ci causa sofferenza. Questa falsa credenza nega anni di ricerche che hanno dimostrato come la capacità di sviluppare un caldo senso di accoglienza rispetto al dolore sia un’importante fonte di coping e di resilienza. (Hiraoka et al. 2015)

 

Inoltre, è diffusa la credenza che la compassione per se stessi sia solo autocommiserazione, mentre le ricerche ( Raes 2010) evidenziano esattamente il contrario: le persone autocompassionevoli sono meno inclini a farsi catturare da forme di vittimismo e più inclini a sperimentare con gentilezza sentimenti difficili. L’autocompassione ci affranca da sentimenti egocentrici di separazione connettendo la nostra sofferenza a quella degli altri.

 

La più insidiosa di queste credenze difensive è l’essere convinti che la compassione per se stessi sia egoista nutrendo la falsa ipotesi che sia alternativa a quella per gli altri; invece – come suggerito da una saggia maestra americana- la compassione è come un nettare che può essere offerto agli altri quando trabocca dal vaso dell’autocompassione. Quando siamo sovrastati dall’autocritica infatti si riduce drasticamente lo spazio che possiamo dedicare agli altri. “ L’essere benevoli con se stessi garantisce le risorse emotive necessarie a essere benevoli con gli altri” ( Germer , Neff 2021, pag. 34) . Eppure non è difficile comprendere che se riusciamo a riconoscere e soddisfare i nostri bisogni emotivi avremo maggiori risorse emotive da mettere in comune.

 

 

In conclusione sembra essenziale riconoscere che è il modo in cui ci poniamo in relazione con noi stessi (come alleati o come nemici) che determina la capacità di superare le difficoltà , sopravvivere, prosperare  ed essere di sostegno agli altri permettendoci di attraversare linevitabile dolore collegato alle avversità della vita.